Il bambino che decide, all’età di dodici anni, di scrivere un diario sul proprio corpo e che lo porta avanti praticamente fino al giorno della sua morte è il protagonista del libro di cui vi sto per parlare: “Storia di un corpo” di Daniel Pennac.
Il diario di questo corpo, nella narrazione di Pennac, è anche l’insolito regalo post mortem che il protagonista, una volta diventato anziano e poi morto, lascia in eredità alla figlia Lison, la quale è ignara che il padre ne abbia tenuto uno e soprattutto che lo abbia dedicato esclusivamente al suo corpo. Nella finzione narrativa dell’autore, tale libro è il risultato del lavoro di un editore a cui Lison ha affidato la pubblicazione del diario mantenendo anonimo il nome del padre e lasciandone integro il contenuto.
Perché, vi chiederete, un diario proprio sul corpo? L’idea di scriverlo nasce come reazione e risposta a un trauma, uno dei tanti vissuti dal protagonista, e dalla consapevolezza di sentire di non avere un corpo “MI SONO GUARDATO! Era come se mi vedessi per la prima volta…era il mio corpo ma non ero io…Non sono matto, so benissimo che giocavo con l’impressione che quello non fossi io ma un ragazzo abbandonato dentro lo specchio”.
Il diario diventa dunque un percorso di incarnazione, che parte dall’osservazione distaccata e fredda del corpo come appendice anatomica del suo essere persona e poi si evolve.
E’ attraverso l’innescarsi della curiosità, dell’attenzione, dell’interesse e della cura verso di sé che si compie l’integrazione e l’identificazione tra la persona e il suo corpo. Insomma, il protagonista passa, nell’arco di tutta la sua esistenza, dall’avere un corpo a essere un corpo e lo testimonia attraverso la puntuale redazione del suo diario, senza tralasciare nulla e senza concedere alcun spazio al suo censore interno.
Il libro non ha tradito le mie aspettative. Pensavo di trovarmi a leggere qualcosa di insolito, divertente, ricco di spunti, audace e poetico allo stesso tempo. Al termine di questa lettura, nel tentativo di isolare alcune chiavi di volta relative al processo di crescita e cambiamento del protagonista, credo di averne identificate alcune.
L’espressione tangibile dell’amore. I gesti di cura espressi con il corpo e per il corpo del protagonista da parte della domestica di casa lo aiutano a riconoscersi anche nella sua dimensione corporea, lo aiutano a diventarne consapevole, a riconoscerlo, a viverci in amicizia e a colmare una parte delle carenze materne. …“Fino al giorno in cui Violette prese il timone e tenne la barra dritta contro tutto e tutti perché aveva segretamente adottato il bambino larvale che si aggirava in quella casa. Sotto la sua ala sono sbocciato.”
Il contatto con la natura. Il protagonista ne trae godimento durante ogni interazione. Perché anche una caduta, un graffio o una lacerazione lo aiutano a ricontattarsi e a sentirsi esistere. Ogni sensazione fisica prodotta a contatto con la natura è la conferma che lui esiste, anche nel suo corpo. “Che gioia arrampicarsi sugli alberi! Soprattutto sulle querce e sui faggi. Tutto il corpo dispiega le ali. I piedi, le mani, ti strappano alla tua condizione…Dove siamo? Né in terra né in cielo, siamo nel cuore dell’esplosione. Vorrei vivere sugli alberi.”
Il processo della scrittura e la ricerca di una parola per ogni sensazione. Mi piace pensare che attraverso la scrittura, costante e in un certo senso disciplinata, il protagonista elabori ogni avvenimento importante della sua vita portandolo fuori di sé e lasciandolo sedimentare sulla carta di una pagina di un diario. Per poi riportarlo dentro di sé e nutrirsi di nuovo valore. La scrittura, per il protagonista del libro, è il modo che ha trovato per non soccombere e per trasformare l’effetto di un trauma in un percorso di auto-conoscenza.
Non mi sorprende, quindi, che Pennac abbia pensato a questo diario come a un regalo: per chi lo scrive, per chi lo riceve e per tutti i lettori reali del libro.
La ricerca di un nome per ogni sensazione corporea: che esercizio curioso e sorprendente! E’ difficile trovare le parole ogni volta che il nostro corpo ci parla, la traduzione da un linguaggio all’altro non è sempre istantanea eppure si può almeno provare a farlo, attraverso l’ascolto attento, curioso e amorevole di sé a contatto con se stesso e con l’ambiente.
“Ho ritrovato immediatamente tutte le sensazioni fisiche del lavoro intellettuale. Il silenzio vibrante dei libri, la peluria delle pagine sotto i polpastrelli, lo scricchiolio del pennino sulle fibre della carta, il profumo acre della colla, i riflessi dell’inchiostro, il peso del mio corpo immobile, le formiche nei piedi rimasti troppo a lungo incrociati…”
Ho amato questo libro, fino all’ultimo carattere stampato. L’ho amato anche con il mio corpo: ho percepito più dilatate - come sotto la lente d’ingrandimento - le parole dell’ultima pagina che stavo leggendo, ho sentito scorrere con più naturalezza il respiro che dalle narici andava fino al diaframma passando dai polmoni, ho sentito il sapore amaro e leggermente alcolico del tappino dell’evidenziatore mentre lo stavo mordendo: probabilmente, per la tristezza di non aver più nulla da sottolineare.
STORIA DI UN CORPO - Daniel Pennac - Universale Economica Feltrinelli
Tema in rilevanza: Il corpo e di tutto ciò che significa essere corpo, partendo da una situazione in cui non lo si riconosce e si pensa di non esistere abbastanza.
Ho scelto questa mia foto perché: Perché l’ho scattata all’inizio del giorno dello scorso Natale, durante una passeggiata in solitaria in cui mi sentivo intera e un tutt’uno con la natura.
Questa recensione appare anche sul Blog ArkaniSegnali
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